Luciano Bartolini, l'autore
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L'autore
Mostre e rassegne premiate dal 1975
"Il Cenacolo", Firenze, Febbraio 1979.
Prefazione dell' autore in catalogo.
"Galleria 74", Foggia, Ottobre 1980.
Prefazione dell' autore in catalogo.
Dall'intervista all'Autore sul tema "Terzofuturismo",
in occasione della Mostra:
"10° Anniversario del Terzofuturismo e Dintorni ".
Poggio Mirteto (Ri), ottobre 1998.


"Il Cenacolo", Firenze, Febbraio 1979.
Prefazione dell' autore in catalogo.

In un'intervista rilasciata ad un noto studioso dell'arte contemporanea, il pittore spagnolo Antonio Saura affermò che l'Informale, in quel periodo ormai in declino, aveva finito per dimostrare che si può fare un'opera d'arte anche con una sola macchia di colore, con ciò mettendo in luce una forte divergenza fra risultati ottenuti e quelli teorizzati da questa poetica al suo nascere. In effetti la macchia mi ha sempre affascinato per una sua particolare vitalità; si può fare una macchia metafisica o una macchia espressionista, ed essa può esistere in modo autonomo o può coesistere con altre come elemento di linguaggio. Quando poi varie macchie vengono concatenate dal segno o rapportate dal colore, tra di esse nasce e si sviluppa una latente tendenza a svincolarsi ed attrarsi, o a coagularsi saldamente in agglomerati, a sovrapporsi e ad allontanarsi, a suggerire o reclamare altre macchie ed altre forme in un continuo e aleatorio espandersi dello spazio pittorico. Nella mia pittura c'è sempre quell' assoluta disponibilità, già tanto cara agli Informali, ad assecondare queste tendenze cinetiche elementari, ma, non condividendo appieno l' ottimismo di Saura, cerco di capire di quanto può essere ridotto questo procedimento, cioè di scoprire e di eliminare quanto vi è di ridondante in questo stupefacente meccanismo, senza arrestarlo e senza compromettere così la vita interna del dipinto. A valle di questo procedimento sintattico c'è quello della composizione sulla quale lavoro con un più deciso intervento, frenando o arginando queste tendenze nelle direzioni più ostili, smorzando contrasti con interventi tonali e talvolta trasformando localmente alcuni agglomerati in più concrete e definite configurazioni plastiche. Finisco di dipingere quando il risultato raggiunto mi avverte di un senso di una configurazione ritmica e cromatica e di un' equilibrio compositivo che si è finalmente stabilito fra la figura e lo spazio residuo sulla tela. Nascono così i miei soggetti: strani ed acuti meccanismi biomorfi mimetizzati su fondi monocromi da cui sembrano estrarre forza per vivere e muoversi, aggregati arcaici di segni e forme che sembrano evocare indecifrabili figurazioni totemiche antiche, cariche talvolta di un'aggressività di origine probabilmente più inconscia che generata da un mio radicale rifiuto della civiltà della macchina. Ma è l'idea, più del soggetto, che mi attrae. Così non è la macchina in sè che mi interessa, ma il modo e la procedura con cui si è andata sviluppando nel suo organizzarsi in modo armonico a partire dalle forme elementari che ne costituiscono l' alfabeto. I dipinti degli ultimi tre anni hanno così tutti lo stesso titolo; sono da vedersi come pagine di un unico libro e sono per me altrettanto affascinanti della macchia di Saura. Queste pagine costituiscono così una cronaca della mia quotidiana indagine su questa mia idea ricorrente, un'annotazione minuziosa scritta a tarda sera da un burocrate pedante sullo stato di evoluzione di quest'idea.


"Galleria 74", Foggia, ottobre 1980.
Prefazione dell' autore in catalogo.
Al di là delle sue premesse ideologiche il movimento informale aveva dimostrato, forse per la prima volta così chiaramente, che l’ ambiguità dei segni e delle forme rendeva possibili in modo sorprendente fruizioni mutevoli, a ciascuna delle quali l’ opera poteva risultare sempre diversa. All’ idea di un’ opera, di per sè non chiusa e conclusa, ma aperta a possibilità di più conclusioni coerenti, corrisponde quella di un fruitore attivo che, col suo intervento, che in questo senso è anche intervento creativo, conclude l’ opera rimuovendone il suo fondamentale stato di ambiguità. E’ da notare a questo proposito, che il pensiero scientifico moderno ci ha abituati ad un concetto simile, secondo il quale l’ osservazione sperimentale perturba il fenomeno e la misura ottenuta è quella dello stato in cui il fenomeno è stato costretto da questa. Così l’ opera aperta si chiarisce in un preciso significato solo in seguito al confronto che l’ osservatore ne fa col proprio repertorio di stati d’ animo; ma questi stati d’ animo sono a loro volta lo specchio dei tempi in cui l’ opera è stata concepita e di cui è testimonianza. Fare pittura, o poesia, significa dunque, oggi come sempre, vivere il mondo, confrontarsi con esso, fare affiorare i dubbi dell’ uomo e tentare di esorcizzare l’ inquietudine che ne deriva attraverso l’ impegno poetico. Credo perciò che ogni pittore sia sopratutto una persona, profondamente dubbiosa, che, col suo lavoro e la sua ostinazione ha sviluppato dentro di sè delle forze che lo spingono ad esprimersi in un fantastico ed ostinato processo di chiarificazione interiore. Spero che queste premesse spieghino la sostanziale irriducibilità delle mie figure a modelli oggettivi e giustifichino la mia sensazione che questi modelli costituiscano sempre un ostacolo al libero espandersi della fantasia. Quando guardo una delle mie figure mi piace allora immaginarla come una parte di un complesso e sconosciuto disegno, oppure come un frammento di una ignota macchina, a volte anche strana e minacciosa, di cui solo i particolari mi sono col tempo divenuti familiari fino all’ inverosimile; altre volte può invece sembrarmi una parte di un assurdo monumento elevato a qualche divinità tecnologica del nostro secolo. Ma di queste figure sono solo le comuni stranezze, queste loro ambiguità e talvolta apparenti assurde aggressività che mi interessano, perchè sono i caratteri riferibili alla nostra reale vita quotidiana. E’ dunque in questi territori, entro questi confini, forse volutamente vaghi e mutevoli , che la mia pittura cerca una sua ragione d’ essere, una sua vita ed una sua realtà.


Dall'intervista all'Autore sul tema "Terzofuturismo",
in occasione della Mostra:
"10° Anniversario del Terzofuturismo e Dintorni ".
Poggio Mirteto (Ri), ottobre 1998.
Per sostenere la tesi di una possibile esistenza oggi di un nuovo futurismo si deve ricorrere alla definizione più generalizzata che questo movimento ha avuto nel passato, almeno fino al 1944, anno in cui viene normalmente considerata conclusa l'esperienza della seconda fase di questo movimento. Questa descrive il Futurismo come movimento multidisciplinare in cui si raccolgono artisti interessati a trovare all'interno della loro ricerca tutte le basi di una comune tensione al futuro tipica di un movimento di avanguardia che voglia perseguire un rinnovamento dei mezzi espressivi e linguistici in una situazione storica in cui vanno maturandosi profondi mutamenti culturali e sociali. Oggi la comparsa e l'emergere delle nuove tecnologie (informatica, robotica di processo) si configurano come fattori che sconvolgono il precedente sviluppo economico, produttivo, sociale: a questi l'artista deve fornire un proprio punto di vista ed atti di partecipazione che precorrano lo svolgersi degli eventi. Siamo in presenza infatti di una rivoluzione economico sociale in atto, che di una vera rivoluzione ha tutte le caratteristiche ed i crismi, ivi compresa la scomparsa di una classe sociale e la comparsa di una nuova. Non sono a questo proposito casuali le dispute di questi giorni, a tutti i livelli politici, sulla riduzione dell'orario di lavoro in fabbrica e sulla indefinibilità di una classe operaia alle soglie del Duemila. L'avvento di macchine autonome intelligenti nella produzione industriale sta infatti provocando nel mondo del lavoro mutamenti maggiori di quelli provocati a suo tempo dall'introduzione della catena di montaggio nei processi produttivi a larga scala. Questi ultimi mutamenti erano alla base delle declamazioni entusiaste dei futuristi, che celebravano i ruggiti dei motori e folli corse rombanti su cavalli di acciaio. L'avvento della robotica sta oggi provocando effetti produttivi e sociali altrettanto profondi, e probabilmente in un futuro assai prossimo devastanti, di segno opposto a quelli sviluppatisi con l'avvento della catena di montaggio. Infatti quest'ultima portò alla formazione e al consolidamento di una classe operaia attraverso l'immissione in fabbrica di masse contadine e artigiane a bassa qualificazione specifica, perchè la catena permetteva la divisione del lavoro ed una produzione ad alta efficienza senza particolari richieste di specializzazione individuale nel processo produttivo. L'avvento della robotica e dell'informatica in fabbrica sta invece oggi portando alla progressiva scomparsa della classe operaia attraverso riconversioni, riduzioni degli orari di lavoro, prepensionamenti, concomitante ad una forte accelerazione della produzione industriale resa possibile dall' enorme efficienza produttiva dei nuovi impianti intelligenti. Alla fabbrica sferragliante dei futuristi si sta sostituendo la fabbrica muta dei microchips, all'uomo si sta sostituendo il robot, alla classe sociale operaia una dirigenza di supertecnici estremamente circoscritta ed elitaria. In questa ottica un nuovo Futurismo, terzo o quarto che sia, oppure una qualsiasi esperienza artistica nuova e diversa, deve muoversi e trovare un suo inserimento nel panorama artistico di fine secolo tenendo conto di tutti gli scenari mutati. Lavoro da anni ad un progetto di un processo di rappresentazione di strutture pittoriche che in tempi passati ho definito "complessi e sconosciuti disegni di cui col tempo solo i particolari mi sono diventati familiari fino all'inverosimile" (da una mia prefazione in catalogo alla personale di Foggia nell'ottobre 1980). A distanza di tanti anni non ho avuto mai motivo di mutare parere, né cercato una definizione più raffinata o più esplicativa di questa. Certo è che un pittore non è particolarmente la persona più adatta a definire la propria opera: infatti essa vive di dubbi e problematiche che si alimentano a loro volta dallo stesso procedere del lavoro e sono per questo motivo persistenti, mutevoli ed indefinibili. Ci sono però alcune sintomatologie che rivelano l'esistenza di una vita interna autonoma del dipinto: la sensazione che insorge nell'artista, in una fase avanzata del lavoro, in base alla quale si stabilisce un contatto col dipinto, ed in seguito al quale l'esecuzione appare accelerata da certi suggerimenti piuttosto imperativi, che l'opera fornisce da quel momento in poi al pittore sulle migliori modifiche o conclusioni che deve effettuare per la riuscita della stessa. Il progetto di rappresentazione è nel mio caso legato profondamente alla ricerca sul linguaggio pittorico più che alla realizzazione di una figura dipinta predeterminata a tavolino. La realizzazione procede mediante l'impiego di un grande numero di monemi o di primitive pittoriche simili a tanti pezzi elementari coi quali costruisco il quadro partendo da inserimenti iniziali casuali e procedendo alla costruzione in organizzazioni sintattiche e strutture ritmate più generali e all'eliminazione di quelle sottostrutture che ad un certo momento risultano ridondanti e quindi non funzionali alla composizione. Una parte assai importante del lavoro risiede nella realizzazione di queste figure elementari che compongono una "libreria mentale di primitive", di cui mi servo per la realizzazione del dipinto. E'probabilmente legato alla libertà degli schemi e delle procedure da me seguite il fatto che non sembra esistere un limite al di là del quale la realizzazione del dipinto possa essere considerata conclusa: questo spiega l'estendersi della progettualità in diversi quadri successivi e l'assenza dei titoli delle opere esposte. Vi sono però delle linee guida generali che seguo durante il procedere del dipinto in atto, di cui generalmente mi servo per arginare le tensioni e il predisporsi casuale delle figure elementari. La disposizione armonica di campiture iniziali sulla tela (spazi negativi) serve per lasciare allo spettatore delle zone visive di riposo: il resto della tela è messa a disposizioni del procedere della costruzione del dipinto (reputo infatti sempre importante il rispetto delle tradizioni). L'espressione generale, il ritmo, la ricerca continua di monemi e l'osservazione delle modalità con le quali essi interagiscono, fanno parte del linguaggio pittorico che uso: questa dedizione all'aspetto linguistico mi ha guidato per gli ultimi due decenni e ad essa ho dedicato più metodicamente il ciclo delle Effemeridi, in cui la varietà dei colori è arginata in favore di un maggiore interesse per il linguaggio. Una contrapposizione più apparente che reale a questo ciclo esiste (e volutamente favorita) nei dipinti del ciclo Cronache, in cui il colore è usato meno come elemento di linguaggio ed è più mirato allo studio aperto di accostamenti tonali e alle suggestioni e suggerimenti tipici della pittura della tradizione. Non sfugge a questa distinzione l'ultimo dipinto al quale mi sono deciso di dare un titolo, studiato questo per due mesi durante i quali si è modificato moltissime volte, lottando contro la mia pervicace convinzione dell'inutilità dei titoli . Mi sembra che la lieve nota di ironia che ne risulta conferisca a questa Cronaca di una Domenica d'Agosto con Benedetto Zaccaria un modo simpatico, spero, di fare accogliere con benevolenza la comparsa di nuovi elementi figurativi oggettivi al di sopra degli elementi strutturali che animavano i dipinti precedenti.


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