La critica
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La critica
Presentazione in catalogo di Vito Riviello in occasione della mostra personale alla galleria " Il Cenacolo ". Firenze, Febbraio 1979
Recensione di Grazia Lago
Recensione di Toni Bonavita
Recensione di Dario Micacchi in occasione della mostra alla Galleria "Il Grifo". Roma, Gennaio 1981
Presentazione in catalogo di Cesare Vivaldi alla Galleria "Il Grifo". Roma, Gennaio 1981
Presentazione in catalogo di Franco Solmi alla Galleria Sanvitale. Bologna, Ottobre 1981
Commento alla mostra di Marino di Franco Campegiani, Marzo 2004


Presentazione in catalogo di Vito Riviello in
occasione della mostra personale alla galleria
"Il Cenacolo ".
Firenze, Febbraio 1979

......Non si tratta di conciliare due modi opposti di dipingere, l’astratto e il figurativo, quanto d’ottenere, partendo da un punto negletto verosimile o invisibile, un’accentuazione di note o di calcoli che raggiunga il suono pieno d’uno spazio riempito armoniosamente.
Bartolini usa il procedimento dei letterati e dei poeti contemporanei d’avanguardia, che si può definire un procedimento d’accrescimento senza ovviamente riferirsi a una quantità.
Si tratta d’un accrescimento di vocazione sul tema, del tema con amplificazioni che, diramandosi dalla sensibilità intuitiva raggiungono luoghi forniti dalla ragione e dalla logica.
Come esige un discorso pittorico ricco di memorie inquietanti e suggestioni, ma coerente e coraggioso nell’ andare fino in fondo al proprio intatto pensiero.
E questo costa fatica all’ artista non contemplativo.
Vito Riviello



Recensione di Grazia Lago

Meccanismi biomorfi e macchine inquietanti. Il freddo nitore del metallo e la sua sublimazione poetica attraverso l'emotività del colore. Rossi e verdi, azzurri cenere, tutti i toni morbidi del giallo e del rosa, del lilla e del viola. La primavera silenziosa di una pittura geometrica e compositiva, astratta solo nella forma perché affonda radici sofferte nella realtà tecnologica del "laser di potenza". Si è conclusa in questi giorni, presso la galleria "Il Grifo " di via Ripetta, a Roma, la personale di Luciano Bartolini. 31 tele, che riassumono nel ciclo delle "Cronache" e delle "Effemeridi", la produzione degli ultimi due anni. Bartolini è un fisico nucleare che lavora al Centro di Frascati. La sua vita quotidiana è conoscere e controllare i meccanismi della disintegrazione dell'atomo. È anche prendere le distanze, a livello razionale e istintuale, da una realtà che ci permette di sopravvivere, fornendo macchine ed energia ma che sfida la vita e la morte e può condurci all'autodistruzione. Bartolini vive questa realtà con la calma e il vigore della ragione, la conoscenza della specializzazione. La sua parte emotiva ed artistica non può però che opporsi alla dilacerazione delle masse, della materia vivente, all'aspetto grottesco e inquietante di una civiltà che costruisce congegni sofisticati, complessi, costosissimi per compiere gesti minimi. Ecco allora scaturire l'esigenza di un recupero. Quello dell'arte e della bellezza delle forme. Olio, tecnica mista, rigore della composizione ci proiettano, con le "Cronache" nella rappresentazione drammatica della vita e della morte. Il rosso, il verde, urlano, attraverso forme spesso deformate, la natura inquietante della manipolazione dell'atomo cioè nel cuore della vita stessa, infranto sulla via inarrestabile della ricerca scientifica, una specie di bocca di vulcano dal quale non è possibile ritrarsi. Sommerse in un conturbante liquido amniotico, macchine "moloch" lavorano in silenzio. Lavorano per noi, sono controllate dai tecnici ma inviano al profano un messaggio inquietante: quello dei mostri della tecnologia che vive una vita propria, minacciosa. Nel ciclo delle "Effemeridi" il "moloch" viene esorcizzato. I colori si attenuano, riposano il cuore e la mente, inviano messaggi di bellezza. Le macchine totemiche si vestono di festoni, ricompongono il cuore infranto dell'atomo e del suo anello di neutroni. Spaziano in visioni lunari, dove il microcosmo si dilata nel macrocosmo recuperando, attraverso la forma tonda, il concetto di universo, la sua aria, la sua libertà, il momento puro della creazione. Qui il timore, forse ingenuo, della macchina si allontana. Il pensiero di "computer" che fabbricano se stessi nell'infinito viene ricacciato nell'inconscio. Ghirlande di carta, lune e soli creano e sublimano la vita minacciata dalla macchina stessa, e costruita per la sopravvivenza. Quella delle "Effemeridi" è un'arte più facilmente fruibile dallo spettatore perché allontana il dramma, parla di quiete, di riposo dell'occhio e dello spirito. Essa però è complementare ed inscindibile dal precedente ciclo delle "Cronache". Entrambi i due cicli rappresentano infatti, compiutamente, la scissione della personalità umana tra l'essere e il dover essere. "Finora - dice Bartolini - l'atomo è stato usato male. Le macchine in sé non sono né buone né cattive. Dipende dall'uso che se ne fa". Mentre parla, negli occhi chiari, profondi si legge il tormento della coscienza, di una lucidità in bilico tra coraggio e paura, dell'individualità umana divisa tra ragione e istinto, tra logica e poesia.
Grazia Lago




Recensione di Toni Bonavita

Nei nostri ricordi di giovinezza ci sono le "macchine inutili" di Bruno Munari. Era una satira per la meccanizzazione che ormai cominciava a coinvolgere tutti: una macchina per ogni cosa, una macchina complicatissima per incollare un francobollo su una lettera o un'altra più complicata per voltare la pagina di un libro. Oggi i tempi sono cambiati; ormai le macchine non fanno sorridere più, anzi ci terrorizzano con i loro terribili ingranaggi. Luciano Bartolini che vive proprio fra le più complesse delle macchine, quelle del sincrotrone di Frascati, ha trovato un nuovo linguaggio di pittura, un linguaggio fantastico che fa subito pensare agli automi e, in un certo senso alla "civiltà delle macchine" tanto declamate dal recentemente scomparso Leonardo Sinisgalli. Luciano Bartolini lavora fra le macchine e dipinge proprio il mondo in cui vive, dando i colori della sua fantasia ai grovigli di filamenti, al gioco meccanico che ogni quadro ci propone. Bartolini chiama questo ciclo della sua pittura "Effemeridi" proprio come espressioni dello scorrere di un tempo meccanico del momento drammatico in cui la meccanicità dei tubi aggrovigliati prende una sua vita particolare, una sua personalità. La mostra alla Galleria "Il Grifo" (Via di Ripetta 131) ha ottenuto un positivo riconoscimento da quanti ritengono il dipingere un modo di "raccontare" la condizione umana nella società.
Toni Bonavita




Recensione di Dario Micacchi in occasione
della mostra alla Galleria "Il Grifo".
Roma, Gennaio 1981.

Intorno al 1965, con una serie di giungle vietnamite nelle quali la natura inghiottiva ogni specie di armi e di tecnologia, Aldo Turchiaro, negli studi di Roma e di Supino nella campagna di Frosinone, avviò una sua pittura dell'immaginario, tra lirico e ironico e metamorfico, una pittura tutta a fitte taches di colore come un tessuto fantastico, con la quale voleva simboleggiare una rivincita della natura sulla tecnologia. Gli antecedenti erano nella grandiosa volumetria del primo Léger cubista e anche del primo Malevic e nei giardini mangia-aeroplani degli anni trenta di Max Ernst. E la maniera di Turchiaro creò una piccola "scuola". Se abbiamo ricordato questa vicenda non è per sminuire le belle immagini tra organiche e tecnologiche dei due cicli "Cronache" e "Effemeridi" che Luciano Bartolini presenta a Roma, ma per dire che il tema è sentito e circola da tempo.
Bartolini è pisano, è nato nel 1934, ha studiato a Pisa ed è ricercatore al Centro di Frascati, un fisico nucleare. Sa dunque come stanno le cose e sa la grande speranza e la grande minaccia della scienza. Ma il pittore è assolutamente fantastico, visionario per nulla didascalico. È un colorista raffinato, assai sensibile: acceso nella serie "Cronache", delicatissimo in quella di "Effemeridi". È pittore di grovigli che sono della natura e delle macchine assieme. Ma è la natura che sembra avere la meglio.
Mi viene in mente il grande serpente piumato e attorto che nell'antica plastica precolombiana doveva simboleggiare la forza del dio Quetzalcoatl perché era l'energia della natura che portava il dio. Forse, per Bartolini non ci sono dei ma, tutto si decide tra natura e tecnologia. I grovigli inestricabili di forme spesso simulano dei totem o sono figurati come forme mai viste d'una vita nuova.
Sulle forme tubolari e lamellari il colore gioca come su tasti di pianoforte sgranando ritmi allegri, energici, brillanti (la serie "Cronache") oppure ritmi smorzati, astrali, come provenienti da profondità remote. Il pittore è un apprendista stregone al quale non sfugge quel che mette in moto.
Un'osservazione di fondo va però fatta: c'è troppa uniformità dell'immagine organico-tecnologica che corrisponde, forse, a una eccessiva semplificazione pittorica del problema con conseguente monotonia del rapporto forma-colore: è da una maggiore liberazione immaginativa di tale rapporto che il lirismo di Luciano Bartolini ha da guadagnare tanto in esattezza quanto in potenza di stupore.
Dario Micacchi





Presentazione in catalogo di Cesare Vivaldi
alla Galleria "Il Grifo".
Roma, Gennaio 1981.

Forse Luciano Bartolini non fa soltanto il pittore: cosa del resto comune a quasi tutti gli artisti d’ oggi, fatta eccezione solo per i miracolati (ma sino a che punto?) dal successo. Il suo secondo lavoro è però davvero insolito ed apparentemente il più lontano possibile dall’ arte e dai suoi problemi. Poichè Bartolini è uno scienziato, un fisico nucleare che presta la sua opera di ricercatore al Centro di Frascati, un uomo quindi impegnato a tempo pieno in un’ attività assorbente e appassionante.
Difficile quindi per lui trovare spazio adeguato per un’ altra attività egualmente assorbente e appassionante come la pittura. Il fatto che egli ci riesca dimostra in primo luogo coraggio, abnegazione e saldezza nei propri convincimenti; in secondo luogo l’ affinità, almeno attitudinale, malgrado le apparenze, tra ricerca scientifica e ricerca artistica. La prima Bartolini la svolge inserito in un gruppo di lavoro, la seconda nella più rigorosa solitudine, ma l’ attitudine alla ricerca è pur sempre la stessa, anche se in un caso avremo dei risultati scientificamente controllabili e nell’ altro dei risultati controllabili solo col metro, ipotetico, della poesia.
Ma non vorrei insistere sull’ immagine di un Bartolini visto come Giano bifronte, considerando che ognuno di noi spesso coesiste con un altro sè stesso non sempre così facile da identificare, e non vorrei nemmeno insistere sul suo lavoro scientifico quasi che la pittura ne fosse un corollario o la trasposizione su un piano diverso.
La pittura di Bartolini è assolutamente autonoma, vive di per sè stessa e prescinde, per quanto è possibile , dalla ricerca dello scienziato. In un certo senso direi semmai che di tale ricerca è la voce della coscienza, il contraltare, ( mi sembra ) pessimistico.
Non può darsi ricerca scientifica , io credo, senza una qualche fiducia nelle sue magnifiche sorti e progressive; ma tale fiducia è revocata in dubbio da una pittura la quale - dice lo stesso Bartolini autopresentandosi a Foggia nel 1980 - può essere vista come parte di un complesso e sconosciuto disegno , oppure un frammento di una ignota macchina strana e minacciosa di cui i soli particolari mi sono divenuti col tempo familiari fino all’ inverosimile, oppure come parte di un assurdo monumento elevato a qualche divinità tecnologica del nostro tempo. Definizioni tutte precise, poichè Bartolini è artista estremamente cosciente di sè stesso, che ben rendono il senso inquietante e arcano di una imagerie priva di riferimenti al mondo reale, eppure angosciosamente concreta, nella quale una delle metafore più ossessivamente ricorrenti nella nostra epoca, quella del labirinto, è spostata dai suoi termini biologici ( le circonvoluzioni cerebrali, il groviglio delle viscere) a riferimenti d’altra specie, meccanicistici e metallici, senza che si annulli o si attenui il ricordo dei primi.
Bartolini ha esordito con una pittura di derivazione informale e in alcuni scritti ha rivendicato le proprie ascendenze ed ha portato contributi degni di nota alle teorie dell’Opera aperta, con paragoni assai pertinenti a quanto avviene nel moderno pensiero scientifico.
Ciò nondimeno, da un’arte violentemente esplosa come la pittura d’ azione dei suoi anni d’apprentissage è passato, col ciclo Cronache, del quale qualche esempio è esposto in questa mostra e poi con l’attuale ciclo Effemeridi ad un’ arte implosa, un’arte cioè, in cui le singole forme sono assai nettamenta definite, quasi ribattute su se medesime. Ma tali forme sono ambigue, indefinibili e indecifrabili altro che come parti di un complesso e sconosciuto disegno (per ripetere le parole di Bartolini), acquistano quindi un significato solo attraverso la coscienza di chi le osserva, sono essenzialmente, nel loro concatenarsi e giustapporsi l’una all’altra, aperte.
L’ambiguità delle opere recenti di Bartolini è accresciuta e rafforzata dal suo particolare modo di usare il colore. Dalla smagliante cromia delle Cronache egli è passato, nelle Effemeridi, a toni assai delicati: pallidi gialli e rosa, verdini, grigioazzurri spenti. Le sue forme, o meglio i suoi ritagli di forme, come prima ho accennato, alludono al metallo, a parti di qualche meccanismo, ma il colore a ciò è incongruo, oppone una resistenza tanto esile quanto tenace. Lo spaesamento, il senso di una realtà irreale, anzi, di una realtà terribilmente reale, è così massimo.
Cesare Vivaldi




Presentazione in catalogo di Franco Solmi
alla Galleria Sanvitale.
Bologna, 30 Ottobre 1981.

Forse non v’è ironia nella pittura di Bartolini, ma certamente il desiderio di un distacco, di un approdo lontanante che lo aiuti a svincolarsi dai grovigli di una metafora della macchina troppo limpidamente frequentata, si può cogliere nelle ultime opere dove sono i valori che un tempo si dicevano pittorici ad emergere come patina d’ irreale sulla implacabilità delle strutture. Non si tratta soltanto di diversioni cromatiche (già notate da Cesare Vivaldi quando ha detto del trascorrere di "pallidi gialli e rosa ,verdini e grigiazzurri spenti" in forme che alludono al metallo), ma piuttosto di un crescere, in queste forme, di tremori tonali nati dalla dissoluzione delle primitive intuizioni plastiche: da un distacco, appunto, che l’artista tende ad assumere sgretolando, fino a renderla del tutto improbabile, la sua metafora strutturale. Bartolini non è certamente il solo artista in Italia ad accorgersi che non si possono più coltivare certezze di linguaggio, neppure in negativo; deve rimettere quindi in discussione le basi stesse di una poetica che l’accomunava, per una sorta di rapporto fiducia - orrore, con l’immagine, ad altri pittori inquietati dalla metafisica degli oggetti. Penso, soprattutto ad un Sarri, giunto , a furia di misurarsi con l’ossessione dei fantasmi tecnologici, a popolarne l’universo trasformando in incubi d’acciaio non soltanto le immagini del quotidiano, ma le stesse situazioni della propria pittura, levigata e inaccessibile come un cristallo.
Ciò che Bartolini ha invece evitato è proprio la caduta tautologica, procedendo dalla certezza all’improbabilità, dalla misura all’inquietudine, fino a giungere, nelle ultime opere, ad una ambiguità totale di cui la pittura, con i suoi misteri impercorribili, torna ad essere il veicolo privilegiato.
Il passaggio è perfino troppo lineare (ma non si dimentichi che ora mi riferisco sopratutto a schemi di linguaggio estrapolati illegittimamente dall’ intero contesto dell’ immagine), se lo si cerca nel confronto fra il ciclo delle Cronache e quello delle Effemeridi, ma l’esito di un dipinto ultimo, che raccoglie versi di Vito Riviello in una sorta di poesia visiva ricondotta a certe nostalgie del floreale, è assolutamente sconcertante ed imprevedibile. In realtà Luciano Bartolini non ha fatto, in questi ultimi anni, che mascherare l’informe, rivestirlo di pseudo distintivi, di scaglie dell’ immaginario quotidianamente consumato nei rituali tecnologici, per poterlo presentare come Cronaca od Effemeride, illeggibile nel gran teatro dell’arte d’oggi. Per questo all’inizio ho parlato di ironia, non so se consapevole. La singolarità di certe immagini, così dolcemente perverse, così crudelmente gioiose nel continuo trascolorare della struttura in tono e del tono in struttura, sta proprio nel loro essere assurdamente presenti come testimonianza (non come doppio) di un’assenza ineludibile: quella del senso, a cui Bartolini sostituisce il brivido della sensazione , lo stupore dell’indeterminato. Non a caso, in un suo testo abbastanza recente, l’artista indica come congeneri Saura e gli informali, ma avrebbe ben potuto citare Sebastiano Matta. L’arte contemporanea vive certo della propria ambiguità, accettata come impossibilità di ordine anche immaginario (l’informale), ma è anche tensione ad un ordine comunque immaginario (Matta ed il surrealismo post-bretoniano). Ho ricordato il maestro cileno, al quale mi ha legato una lunga consuetudine di lavoro, perchè in lui il tema della macchina era insistito fino alla provocazione (si ricordi , ad esempio, l’ Autoapocalipse), ma solo in quanto nell’ opera immaginata (creata) la macchina veniva privata d’identità, diveniva altro, metafora del suo contrario, intreccio di strutture irreparabilmente irrelate, sogno perfino. Bartolini probabilmente non si è mai posto, al di là di una ovvia pratica culturale, il problema del surrealismo, ma certi esiti di questa scuola, liberatori anche rispetto alle dettature dell’ inconscio, mi sembrano ritrovarsi in molte sue opere , a cominciare da quelle in cui più è avvertita la sospensione delle forme in uno spazio senza vera plasticità, fantasmatico. Se l’ occhio non si ferma soltanto sul blocco rappresentato dall’ oggetto - cronaca o dall’ oggetto - effemeride e si sposta a coglierlo come uno dei tanti punti di possibile relazione nell’opera, sarà agevole vedere come struttura altrettanto paradossalmente oggettiva, anche lo spazio in cui, per antica forza di convenzione, lo vediamo invece collocato. Intendo dire che il rapporto figura-sfondo è continuamente frantumato nell’ immagine di Bartolini proprio laddove sembra più perentorio e implacabile. L’artista non procede dal certo all’incerto, come era proprio della poetica informale, nè dall’incerto al certo, come vorrebbe il dettato neocostruttivista riportato in auge dall’ultima ondata concettuale.
Egli si muove dall’ambiguo verso una più dilatata ambiguità , dall’improbabilità della percezione all’ ancor più alta improbabilità dell’ immagine costruita, ove tutto ciò che è limpidezza è anche mistero. Come nella poesia,o nella parola di pittura, in cui si esprime ciò che non è, di noi, cronaca o effemeride.
Franco Solmi

 

Commento alla mostra di Marino di Franco Campegiani
Marino, 17 Marzo 2004.

Trovo estremamente interessante, nella tua pittura, la connessione tra tematiche surrealiste e futuriste, così radicalmente divergenti ed opposte fra di loro.
I tuoi totem tecnologici rappresentano una suggestiva reinvenzione, in chiave interiore ed umanistica, dei feticci industriali. E' una tecnologia umanizzata nel profondo, carica di atti eroici e titanismi rapportati al quotidiano.
Davvero affascinante il recupero di simbologie arcaiche, mitologiche, guerresche e medievali, attraverso l'incredibile metafora dello squallido ingranaggio della catena industriale.
Complimenti. La tua Musa grida fortissimo che l'uomo dei nostri tempi, nonostante tutto, è ancora umano!

Franco Campegiani



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