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La critica
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Presentazione
in catalogo di Vito Riviello in
occasione della mostra personale alla galleria "Il Cenacolo ". Firenze, Febbraio 1979
......Non si tratta di conciliare due modi opposti di dipingere, lastratto
e il figurativo, quanto dottenere, partendo da un punto negletto
verosimile o invisibile, unaccentuazione di note o di calcoli
che raggiunga il suono pieno duno spazio riempito armoniosamente. Bartolini usa il procedimento dei letterati e dei poeti contemporanei davanguardia, che si può definire un procedimento daccrescimento senza ovviamente riferirsi a una quantità. Si tratta dun accrescimento di vocazione sul tema, del tema con amplificazioni che, diramandosi dalla sensibilità intuitiva raggiungono luoghi forniti dalla ragione e dalla logica. Come esige un discorso pittorico ricco di memorie inquietanti e suggestioni, ma coerente e coraggioso nell andare fino in fondo al proprio intatto pensiero. E questo costa fatica all artista non contemplativo. Vito
Riviello |
Recensione di Grazia Lago
Meccanismi
biomorfi e macchine inquietanti. Il freddo nitore del metallo e la sua
sublimazione poetica attraverso l'emotività del colore. Rossi e verdi,
azzurri cenere, tutti i toni morbidi del giallo e del rosa, del lilla
e del viola. La primavera silenziosa di una pittura geometrica e compositiva,
astratta solo nella forma perché affonda radici sofferte nella realtà
tecnologica del "laser di potenza". Si è conclusa in questi giorni,
presso la galleria "Il Grifo " di via Ripetta, a Roma, la personale
di Luciano Bartolini. 31 tele, che riassumono nel ciclo delle "Cronache"
e delle "Effemeridi", la produzione degli ultimi due anni. Bartolini
è un fisico nucleare che lavora al Centro di Frascati. La sua vita quotidiana
è conoscere e controllare i meccanismi della disintegrazione dell'atomo.
È anche prendere le distanze, a livello razionale e istintuale, da una
realtà che ci permette di sopravvivere, fornendo macchine ed energia
ma che sfida la vita e la morte e può condurci all'autodistruzione.
Bartolini vive questa realtà con la calma e il vigore della ragione,
la conoscenza della specializzazione. La sua parte emotiva ed artistica
non può però che opporsi alla dilacerazione delle masse, della materia
vivente, all'aspetto grottesco e inquietante di una civiltà che costruisce
congegni sofisticati, complessi, costosissimi per compiere gesti minimi.
Ecco allora scaturire l'esigenza di un recupero. Quello dell'arte e
della bellezza delle forme. Olio, tecnica mista, rigore della composizione
ci proiettano, con le "Cronache" nella rappresentazione drammatica della
vita e della morte. Il rosso, il verde, urlano, attraverso forme spesso
deformate, la natura inquietante della manipolazione dell'atomo cioè
nel cuore della vita stessa, infranto sulla via inarrestabile della
ricerca scientifica, una specie di bocca di vulcano dal quale non è
possibile ritrarsi. Sommerse in un conturbante liquido amniotico, macchine
"moloch" lavorano in silenzio. Lavorano per noi, sono controllate dai
tecnici ma inviano al profano un messaggio inquietante: quello dei mostri
della tecnologia che vive una vita propria, minacciosa. Nel ciclo delle
"Effemeridi" il "moloch" viene esorcizzato. I colori si attenuano, riposano
il cuore e la mente, inviano messaggi di bellezza. Le macchine totemiche
si vestono di festoni, ricompongono il cuore infranto dell'atomo e del
suo anello di neutroni. Spaziano in visioni lunari, dove il microcosmo
si dilata nel macrocosmo recuperando, attraverso la forma tonda, il
concetto di universo, la sua aria, la sua libertà, il momento puro della
creazione. Qui il timore, forse ingenuo, della macchina si allontana.
Il pensiero di "computer" che fabbricano se stessi nell'infinito viene
ricacciato nell'inconscio. Ghirlande di carta, lune e soli creano e
sublimano la vita minacciata dalla macchina stessa, e costruita per
la sopravvivenza. Quella delle "Effemeridi" è un'arte più facilmente
fruibile dallo spettatore perché allontana il dramma, parla di quiete,
di riposo dell'occhio e dello spirito. Essa però è complementare ed
inscindibile dal precedente ciclo delle "Cronache". Entrambi i due cicli
rappresentano infatti, compiutamente, la scissione della personalità
umana tra l'essere e il dover essere. "Finora - dice Bartolini - l'atomo
è stato usato male. Le macchine in sé non sono né buone né cattive.
Dipende dall'uso che se ne fa". Mentre parla, negli occhi chiari, profondi
si legge il tormento della coscienza, di una lucidità in bilico tra
coraggio e paura, dell'individualità umana divisa tra ragione e istinto,
tra logica e poesia.
Grazia
Lago |
Recensione di Toni Bonavita
Nei nostri ricordi di giovinezza ci sono le "macchine inutili" di Bruno
Munari. Era una satira per la meccanizzazione che ormai cominciava a coinvolgere
tutti: una macchina per ogni cosa, una macchina complicatissima per incollare
un francobollo su una lettera o un'altra più complicata per voltare la
pagina di un libro. Oggi i tempi sono cambiati; ormai le macchine non
fanno sorridere più, anzi ci terrorizzano con i loro terribili ingranaggi.
Luciano Bartolini che vive proprio fra le più complesse delle macchine,
quelle del sincrotrone di Frascati, ha trovato un nuovo linguaggio di
pittura, un linguaggio fantastico che fa subito pensare agli automi e,
in un certo senso alla "civiltà delle macchine" tanto declamate dal
recentemente scomparso Leonardo Sinisgalli. Luciano Bartolini lavora fra
le macchine e dipinge proprio il mondo in cui vive, dando i colori della
sua fantasia ai grovigli di filamenti, al gioco meccanico che ogni quadro
ci propone. Bartolini chiama questo ciclo della sua pittura "Effemeridi"
proprio come espressioni dello scorrere di un tempo meccanico del momento
drammatico in cui la meccanicità dei tubi aggrovigliati prende una sua
vita particolare, una sua personalità. La mostra alla Galleria "Il Grifo"
(Via di Ripetta 131) ha ottenuto un positivo riconoscimento da quanti
ritengono il dipingere un modo di "raccontare" la condizione umana nella
società.
Toni Bonavita
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Recensione di Dario Micacchi in occasione
della mostra alla Galleria "Il Grifo". Roma, Gennaio 1981.
Intorno al 1965, con una serie di giungle vietnamite nelle quali la natura
inghiottiva ogni specie di armi e di tecnologia, Aldo Turchiaro, negli
studi di Roma e di Supino nella campagna di Frosinone, avviò una
sua pittura dell'immaginario, tra lirico e ironico e metamorfico, una
pittura tutta a fitte taches di colore come un tessuto fantastico, con
la quale voleva simboleggiare una rivincita della natura sulla tecnologia.
Gli antecedenti erano nella grandiosa volumetria del primo Léger
cubista e anche del primo Malevic e nei giardini mangia-aeroplani degli
anni trenta di Max Ernst. E la maniera di Turchiaro creò una piccola
"scuola". Se abbiamo ricordato questa vicenda non è per
sminuire le belle immagini tra organiche e tecnologiche dei due cicli
"Cronache" e "Effemeridi" che Luciano Bartolini presenta
a Roma, ma per dire che il tema è sentito e circola da tempo.
Bartolini è pisano, è nato nel 1934, ha studiato a Pisa ed è ricercatore al Centro di Frascati, un fisico nucleare. Sa dunque come stanno le cose e sa la grande speranza e la grande minaccia della scienza. Ma il pittore è assolutamente fantastico, visionario per nulla didascalico. È un colorista raffinato, assai sensibile: acceso nella serie "Cronache", delicatissimo in quella di "Effemeridi". È pittore di grovigli che sono della natura e delle macchine assieme. Ma è la natura che sembra avere la meglio. Mi viene in mente il grande serpente piumato e attorto che nell'antica plastica precolombiana doveva simboleggiare la forza del dio Quetzalcoatl perché era l'energia della natura che portava il dio. Forse, per Bartolini non ci sono dei ma, tutto si decide tra natura e tecnologia. I grovigli inestricabili di forme spesso simulano dei totem o sono figurati come forme mai viste d'una vita nuova. Sulle forme tubolari e lamellari il colore gioca come su tasti di pianoforte sgranando ritmi allegri, energici, brillanti (la serie "Cronache") oppure ritmi smorzati, astrali, come provenienti da profondità remote. Il pittore è un apprendista stregone al quale non sfugge quel che mette in moto. Un'osservazione di fondo va però fatta: c'è troppa uniformità dell'immagine organico-tecnologica che corrisponde, forse, a una eccessiva semplificazione pittorica del problema con conseguente monotonia del rapporto forma-colore: è da una maggiore liberazione immaginativa di tale rapporto che il lirismo di Luciano Bartolini ha da guadagnare tanto in esattezza quanto in potenza di stupore. Dario Micacchi
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Presentazione in catalogo di Franco Solmi
alla Galleria Sanvitale. Bologna, 30 Ottobre 1981.
Forse non vè ironia nella pittura di Bartolini, ma
certamente il desiderio di un distacco, di un approdo lontanante che
lo aiuti a svincolarsi dai grovigli di una metafora della macchina troppo
limpidamente frequentata, si può cogliere nelle ultime opere dove sono
i valori che un tempo si dicevano pittorici ad emergere
come patina d irreale sulla implacabilità delle strutture. Non si tratta
soltanto di diversioni cromatiche (già notate da Cesare Vivaldi quando
ha detto del trascorrere di "pallidi gialli e rosa ,verdini e
grigiazzurri spenti" in forme che alludono al metallo), ma
piuttosto di un crescere, in queste forme, di tremori tonali nati dalla
dissoluzione delle primitive intuizioni plastiche: da un distacco, appunto,
che lartista tende ad assumere sgretolando, fino a renderla del tutto
improbabile, la sua metafora strutturale. Bartolini non è certamente
il solo artista in Italia ad accorgersi che non si possono più coltivare
certezze di linguaggio, neppure in negativo; deve rimettere quindi in
discussione le basi stesse di una poetica che laccomunava, per una
sorta di rapporto fiducia - orrore, con limmagine, ad altri pittori
inquietati dalla metafisica degli oggetti. Penso, soprattutto ad un
Sarri, giunto , a furia di misurarsi con lossessione dei fantasmi tecnologici,
a popolarne luniverso trasformando in incubi dacciaio non soltanto
le immagini del quotidiano, ma le stesse situazioni della propria pittura,
levigata e inaccessibile come un cristallo.
Ciò che Bartolini ha invece evitato è proprio la caduta tautologica, procedendo dalla certezza allimprobabilità, dalla misura allinquietudine, fino a giungere, nelle ultime opere, ad una ambiguità totale di cui la pittura, con i suoi misteri impercorribili, torna ad essere il veicolo privilegiato. Il passaggio è perfino troppo lineare (ma non si dimentichi che ora mi riferisco sopratutto a schemi di linguaggio estrapolati illegittimamente dall intero contesto dell immagine), se lo si cerca nel confronto fra il ciclo delle Cronache e quello delle Effemeridi, ma lesito di un dipinto ultimo, che raccoglie versi di Vito Riviello in una sorta di poesia visiva ricondotta a certe nostalgie del floreale, è assolutamente sconcertante ed imprevedibile. In realtà Luciano Bartolini non ha fatto, in questi ultimi anni, che mascherare linforme, rivestirlo di pseudo distintivi, di scaglie dell immaginario quotidianamente consumato nei rituali tecnologici, per poterlo presentare come Cronaca od Effemeride, illeggibile nel gran teatro dellarte doggi. Per questo allinizio ho parlato di ironia, non so se consapevole. La singolarità di certe immagini, così dolcemente perverse, così crudelmente gioiose nel continuo trascolorare della struttura in tono e del tono in struttura, sta proprio nel loro essere assurdamente presenti come testimonianza (non come doppio) di unassenza ineludibile: quella del senso, a cui Bartolini sostituisce il brivido della sensazione , lo stupore dellindeterminato. Non a caso, in un suo testo abbastanza recente, lartista indica come congeneri Saura e gli informali, ma avrebbe ben potuto citare Sebastiano Matta. Larte contemporanea vive certo della propria ambiguità, accettata come impossibilità di ordine anche immaginario (linformale), ma è anche tensione ad un ordine comunque immaginario (Matta ed il surrealismo post-bretoniano). Ho ricordato il maestro cileno, al quale mi ha legato una lunga consuetudine di lavoro, perchè in lui il tema della macchina era insistito fino alla provocazione (si ricordi , ad esempio, l Autoapocalipse), ma solo in quanto nell opera immaginata (creata) la macchina veniva privata didentità, diveniva altro, metafora del suo contrario, intreccio di strutture irreparabilmente irrelate, sogno perfino. Bartolini probabilmente non si è mai posto, al di là di una ovvia pratica culturale, il problema del surrealismo, ma certi esiti di questa scuola, liberatori anche rispetto alle dettature dell inconscio, mi sembrano ritrovarsi in molte sue opere , a cominciare da quelle in cui più è avvertita la sospensione delle forme in uno spazio senza vera plasticità, fantasmatico. Se l occhio non si ferma soltanto sul blocco rappresentato dall oggetto - cronaca o dall oggetto - effemeride e si sposta a coglierlo come uno dei tanti punti di possibile relazione nellopera, sarà agevole vedere come struttura altrettanto paradossalmente oggettiva, anche lo spazio in cui, per antica forza di convenzione, lo vediamo invece collocato. Intendo dire che il rapporto figura-sfondo è continuamente frantumato nell immagine di Bartolini proprio laddove sembra più perentorio e implacabile. Lartista non procede dal certo allincerto, come era proprio della poetica informale, nè dallincerto al certo, come vorrebbe il dettato neocostruttivista riportato in auge dallultima ondata concettuale. Egli si muove dallambiguo verso una più dilatata ambiguità , dallimprobabilità della percezione all ancor più alta improbabilità dell immagine costruita, ove tutto ciò che è limpidezza è anche mistero. Come nella poesia,o nella parola di pittura, in cui si esprime ciò che non è, di noi, cronaca o effemeride. Franco Solmi |
Commento alla mostra di Marino di Franco Campegiani
Marino, 17 Marzo 2004.
Trovo estremamente interessante, nella tua pittura, la connessione
tra tematiche surrealiste e futuriste, così radicalmente divergenti
ed opposte fra di loro. Franco Campegiani |
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